Johannes Vermeer (1632-1675) alle origini del mito
della vita borghese

La Mostra alle Scuderie del Quirinale Roma
27 settembre 2012-20 gennaio 2013

Ricezione e lettura della Mostra su 8 dipinti di Vermeer alle Scuderie del Quirinale può oggi, in questo scorcio di 3° Millennio, risultare più complessa e più semplice di quanto non potesse succedere qualche decennio fa, prima della crisi del sistema economico globalizzato.

Se poi aggiungiamo a Vermeer oltre 50 quadri dei pittori olandesi, da Pieter de Hooch a Metsu, da Gerard ter Borch a Fabritius (il più famoso seguace di Rembrandt), testimonianze appartenenti al contesto della Civiltà olandese del Seicento – come ci insegnò tanti anni fa Johann Huizinga nel  fascinoso affresco storico scritto nel 1941,  dopo l’invasione e l’occupazione dell’Olanda da parte delle armate naziste nella II guerra mondiale – ricezione ed interpretazione dell’insieme della Mostra si fanno ancora più complesse e, al tempo stesso, paradossalmente, più semplici.

La ricezione della pittura olandese del Seicento in questa Mostra è, a suo modo, fuori dal comune e straordinaria se pensiamo che il rapporto romano e italiano con l’Olanda e con i Fiamminghi è fondato prevalentemente sulla rappresentazione figurativa delle forme simboliche e sul linguaggio dei Van Dyck, dei Brueghel, dei Van T’Horst e Rembrandt, i cui capolavori sono espressione di un favoloso sospeso tra un’insostenibile inquietante terribile terrenità e la bellezza irraggiungibile della Perfezione e della Grazia celeste, dei doni della fede e della promessa divina.

Niente somiglia in questa Mostra della pittura olandese alla prevalente relazione che avevamo intrattenuto finora in virtù delle collezioni presenti al Museo Borghese a Roma, o a quelle raccolte agli Uffizi o a Brera, al Museo dell’Accademia a Venezia, soltanto per citare luoghi sacri dei secoli aurei dell’arte europea, noti e frequentati dalla maggioranza degli italiani.

Il merito di questa sorta di straniamento che avverte – così riteniamo – ogni visitatore della Mostra spetta prima di tutto a Johannes Vermeer, al pittore di Delft capace di raccogliere la domanda dei suoi concittadini di rappresentare la magia della vita quotidiana ed esprimerne le sottili atmosfere fissandole in una temporalità metastorica.

Il miracolo narrativo della semplice vita delle figure umane colte nella domestica luce del meriggio che, penetrando per lo più da sinistra nelle camere, illumina le loro civili ed ordinate case borghesi, rivelando i sentimenti di trepida attesa – l’arrivo dell’amato e/o dell’amata ne La suonatrice di liuto – o il giuoco della seduzione esercitata dalla stupefatta espressione della donna in un improbabile rendez-vous galante con il cavaliere in un locale pubblico in Giovane donna con bicchiere di vino, rendono ed esaltano, per contrasto, il desiderio e il piacere del vivere di questi cittadini di un mondo dell’eterno ritorno, mentre poco lontano, all’interno della loro patria, le forze terribili e distruttive della guerra irrompono ancora una volta dopo ottanta anni di opposizione armata e vittoriosa dell’intero popolo delle Provincie Unite per liberarsi dalla dominazione spagnola.

Tutti i dipinti dei maestri olandesi qui esposti sono la plastica rappresentazione della civile temperie di cui gode e in cui è immersa l’Olanda.

È l’epoca in cui il Gran Pensionario Johan De Witt, alla testa dell’Olanda repubblicana, prende il posto della nobile dinastia degli Orange, già alla guida della prima affermazione di indipendenza dal potere feudale degli Asburgo, e difende, nella seconda metà del Seicento, libertà ed autonomia economico-politica del paese messe a repentaglio, dopo un lungo periodo di prosperità e grande sviluppo commerciale e sociale, dalle mire mercantilistiche dell’Inghilterra di Cromwell, prima, e dalla restaurazione del potere monarchico degli Stuart, poi, con l’avvento al trono di Carlo II, nonché dall’espansionismo della Francia di Luigi XIV.

Ciononostante, nella immobile quasi trasognata Delft, nulla fa presagire o intuire una drammatica interruzione o rottura delle civili abitudini degli abitanti causati dagli sconvolgenti avvenimenti recati con la guerra dall’ostile concorrenza delle grandi potenze del tempo.

Delft ci è restituita con le sue atmosfere dai dipinti di Jan van der Heyden, di Daniel Vosmaer, e dagli interni della Nieuwe Kerk e della Oude Kerk di Emanuel de Witte, inusuale scoperta di uno spazio dedicato al culto religioso, vissuto come prolungamento della vita quotidiana nella pubblica piazza con cani e  mendicanti al seguito delle famiglie in visita. Eppure, l’Olanda  degli anni Sessanta e Settanta del Seicento dovette affrontare prove terribili che videro l’assassinio ad opera degli Orangisti del Gran Pensionario De Witt e di suo fratello Cornelis, a seguito dell’invasione del paese da parte delle truppe di Luigi XIV di Francia e alla successiva decisione di fermarne l’avanzata con l’apertura delle dighe a mare.

Daniel Vosmaer (1622-1669/1670), Veduta di Delft da una loggia immaginaria, 1663

L’unica presaga testimonianza del drammatico periodo storico è fornita dal piccolo dipinto di Egbert van der Poel con la Veduta di Delft con l’esplosione del 1654 in cui viene rappresentato lo scoppio della polveriera ospitata nella parte settentrionale della cittadina olandese che sarebbe costata incendi, morti e distruzioni, e la stessa vita alla figlia del pittore Van der Poel e quella del pittore Carel Fabritius, allievo e notevole rappresentante della scuola del grande Rembrandt.

Fabritius, trasferitosi a Delft verso il 1650 avrebbe avuto una grande influenza sia nel suscitare l’avvio di una specifica tradizione pittorica nella cittadina sia nella stessa produzione di Vermeer come si può vedere nel dipinto Donna con orecchino di perla, in seguito tema di uno tra i più famosi quadri del vice-decano della gilda di Delft.

Il sopravvento del senso e dei significati della vita civile sulla morte e sulle distruzioni della guerra è dato dallo straordinario e inedito contesto sia dei committenti dell’arte figurativo-pittorica – la maggioranza dei quali appartiene alla piccola e media borghesia mercantile olandese – sia dal proliferare delle numerose e diverse scuole di pittura, da Leida a Bruxelles, da Rotterdam ad Amsterdam, da Dordrecht a L’Aia.

La richiesta di dipingere l’esistere nelle sue forme quotidiane, sia che si rappresenti l’habitat urbano e la sua natura circostante, sia che si narri l’attività dello studioso, còlto nella pausa di riflessione della sua professione come nell’Astronomo al lume di candela di Gerrit Dou, sia che si fissi nella Visita di Pieter de Hooch, o nell’Ufficiale che scrive una lettera di Gerard ter Borch, costituiscono altrettante possibilità che l’arte concede a committenti ed autori di trarsi fuori dal caso e dalla mera contingente temporalità. Se quell’astronomo è rappresentato – come lo è – nella sua più intima e minima esperienza di vita, egli trova nella sospensione riflessiva del suo fare  l’opportunità di indicare ciò che lo accomuna e lo mette in comunicazione con gli altri, e, al tempo stesso, rinvia al suo esser parte di un’intera comunità.

Possiamo attribuire a Johannes Vermeer una più distintiva e particolare capacità di rappresentazione del mondo a cui tutti, magicamente, con la loro stessa esistenza, partecipano, artisti e committenti, alto-borghesi e piccoli commercianti, dame e cavalieri, domestiche e civil servants?

Già nella sua Delft, dalla quale non seppe né volle mai separarsi nonostante le molte difficoltà economiche patite, Vermeer riceve presto il riconoscimento nella sua gilda di pittori come guida e alfiere della corporazione, sebbene a chi viene nel suo atelier per acquistare una sua opera capiti di non trovarne neppure una, e sia costretto a visitare la casa di un vicino, ultimo acquirente, per capire – ma ne rimarrà deluso – a che cosa sia dovuta la fama del pittore.

Dunque, Jan Vermeer è un punto di riferimento sociale per gli olandesi che amano la pittura e che sono soliti abbellire le loro case con i lavori dei più affermati artisti e colleghi del pittore di Delft – (qui in Mostra possiamo ammirare la lezione esercitata da Vermeer sul grande Gabriel Metsu, Donna che legge una lettera, e Uomo che scrive una lettera), ma nonostante le necessità economiche da soddisfare in seguito alla numerosa figliolanza avuta dalla cattolica moglie Catharina Bolnes, il numero di quadri dipinti fino alla morte a 43 anni nel 1675 non arriva, ovvero supera di poco, i cinquanta.

Ma allora, che cosa distingue Vermeer dagli altri pittori del suo tempo, che cosa ne fa oggi uno tra i più grandi esponenti dell’arte post-rinascimentale, tanto da misurarne il valore con quello dei Piero della Francesca, dei Caravaggio, dei Rubens, pure nella diversità di stile e di epoca?

Si può rispondere a queste domande guardando con molta attenzione i pochi ma esemplari dipinti esposti in questa Mostra.

Se, infatti, la Ragazza con il cappello rosso rappresenta un unicum nell’intera produzione di Vermeer come suprema affermazione della preminenza del colore – (questo avvolge in un sapiente giuoco di luci e ombre il volto della ragazza che guarda verso gli spettatori/ammiratori, anch’essa circondata e sorpresa dalla meraviglia del rosso) – così da staccarsi proprio in considerazione dell’uso esclusivo di tale tecnica dagli altri pittori della sua Delft, è nei dipinti come Giovane donna seduta al virginale (1670-72 circa, olio su tela, 25 x 20 cm.), nella già citata Giovane donna con bicchiere di vino (1659-1660 circa, olio su tela, 77,5 x 66,7 cm.), che Vermeer ci consente di capire la cifra personale della sua arte.

 

Johannes Vermeer (1632-1675), La suonatrice di liuto, 1662 - 1663 Johannes Vermeer, Giovane donna seduta al virginale, 1670 - 1672 circa

Nell’apparente ordinaria scena di entrambi i dipinti, nel primo il centro della rappresentazione pittorica è il volto della donna in cui traspare fortissima la malinconia del suo carattere: tutta la luce, proveniente, come al solito, da sinistra, batte sullo strumento musicale, sulle vesti, sulle braccia della donna, quasi ad esaltare e sottolineare l’espressione del volto che emana, al tempo stesso, una quiete ed una rassegnata tristezza, tratto distintivo di questa figura.

All’opposto, nel secondo dipinto, l’aspetto quasi gioioso della donna che si concede il piacere del vino, viene espresso con la sorpresa e la meraviglia che essa prova con  l’attirare le attenzioni di un galante cavaliere, mentre al tempo stesso provoca in noi spettatori una sorta di impressione da scena in movimento, dovuta alla somiglianza tra la figura maschile seduta nell’angolo della stanza, pensosa e quasi reclinata su se stessa, con quella di uomo che prende la mano della donna sorridente, proprio come se lo stesso personaggio si fosse mosso dall’angolo, svegliatosi dal torpore, per porgere le sue attenzioni alla giovane. La didascalia leggibile sulla vetrata della finestra segnala, per altro, che il pittore intende rappresentare la temperanza delle passioni, sia a riguardo del cavaliere, preda del vizio del fumo, sia a riguardo del personaggio galante in caccia di avventure erotiche.

Soltanto da questi due esempi pittorici ne viene fuori una sorta di ritratto particolare di Jan Vermeer rispetto ai suoi colleghi di Delft e delle altre nobili città olandesi.

In questo virtuale ritratto rifulge la tensione di Vermeer rivolta ad esprimere nella capacità desiderante delle figure rappresentate il fondamento di quell’amore per la vita e la quiete del vivere nella tormentata temperie politica dell’Olanda del Seicento.

Nel contrasto fra le peraltro ignorate tensioni disgregatrici arrecate dalla ubris dei Poteri politici dominanti e la rappresentazione da parte di Vermeer della imperturbabile vita degli abitanti di Delft, racchiusa tra una sorta di contemplazione di una natura resa non solo disponibile ai bisogni dell’uomo ma anche amichevole sfondo della sua storia, la narrazione del dominio delle passioni e la consapevole accettazione dei limiti della natura umana, l’arte del pittore olandese può essere considerata come la singolare premonizione e anticipazione di quella civiltà artistica e letteraria che nell’Italia tra fine Seicento e inizi Settecento assumerà il nome e i connotati dell’Arcadia, quale proiezione del ritorno alla semplicità dell’esistere evocata dal mondo pre-politico e mitico dell’antica Grecia, Arcadia divenuta modello ideale, per GianVincenzo Gravina e per Pietro Metastasio, per una profonda rigenerazione morale dei costumi e del comportamento etico-religioso dei credenti cattolici, e prefigurazione della nascita di una nuova vita civile non più sottoposta all’arbitrio di forze cieche e irrazionali.

Se non ci fossero giustamente presenti i limiti e le differenze storico-ambientali, culturali e linguistiche tra l’Olanda di Vermeer e l’Italia dei Gravina e dei Metastasio, le analogie tra la conversione al cattolicesimo del pittore di Delft, il matrimonio con Catharina Bolnes, e la funzione determinante di Cristina, l’ex Regina di Svezia, convertitasi dall’originaria fede protestante alla fede cattolica per affermare a Roma le suggestioni delle forme dell’arte della classicità e del vivere secondo natura, ispiratrice essa stessa della nascita dell’Accademia dell’Arcadia, ci potrebbero fornire indizi e collegamenti di rilevante interesse critico ed ermeneutico.

Edda Conte - Mario Valente                            14 novembre 2012

 

 

 

Metastasio - Farinelli - Chi siamo - Editoria - Orchestra - News - Comitato Nazionale - Links - Contatti - Stampa - Ch. Burney - Archivio News - Mappa

Copyright (C) 2004-2005 Mario Valente e Comitato per le Celebrazioni di Pietro Metastasio. Tutti i diritti riservati.