Celebrazioni, manifestazioni e pubblicazioni
per il III Centenario della nascita di Pompeo Batoni (1708-1787)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pier Paolo Quieto, Pompeo Girolamo de’ Batoni L’Ideale classico nella Roma del Settecento, Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato Libreria dello Stato, 2007, pp. 435, €. 220,00.

Pompeo Batoni, Prince of Painters in Eighteenth-Century Rome, a cura di Edgar Peters Bowron e Peter Björn Kerber, Yale University Press, New Haven and London in association with The Museum of fine Arts, Houston, 2008, pp. 220, € 35,00.

Pompeo Batoni 1708-1787 L’Europa delle Corti e il Grand Tour, a cura di Liliana Barroero e Fernando Mazzocca, Milano, Silvana Editoriale, 2008, pp. 431, €. 35,00.

 
 

La straordinaria occasione delle celebrazioni per il 3° Centenario della nascita di Pompeo Batoni (1708-1787) ha favorito dal 2007 al 2008 la pubblicazione di ben tre importanti volumi sull’opera del pittore lucchese.

Il primo ad essere pubblicato nel 2007 – anticipazione della ricorrenza delle celebrazioni dell’anno successivo – è stato il grande volume di Pier Paolo Quieto, Pompeo Girolamo de’ Batoni per i tipi dell’Istituto Poligrafico dello Stato. In una solida ed adeguata veste editoriale in linea con la tradizione della libreria dello Stato, lo studioso ha raccolto le immagini della maggior parte dei dipinti, disegni e studi, sparsi per il mondo, di un’opera pittorica che ancora oggi sembra destinata ad ulteriori scoperte ed attribuzioni allo stesso Pompeo Batoni.

Il volume del Quieto ha adottato nel saggio introduttivo il metodo di una ricognizione cronologica sull’opera del pittore lucchese, indagando e illuminando strada facendo la stessa vita dell’artista, i suoi affetti familiari, le sue numerose figliolanze avute rispettivamente dalla prima moglie, Caterina Setti, e dalla seconda, Lucia Fattori. Nei saggi successivi sono state studiate le committenze dei suoi quadri di tipo storico-mitologico, di genere sacro e religioso, provenienti queste da ambienti di curia, da grandi ecclesiastici e dallo stesso papato, ed infine quelle della ritrattistica non soltanto dei milords inglesi, attratti dalla grandezza della Roma classica e dagli scavi archeologici, ma anche di importanti personaggi della vita politica del tempo, da cardinali a papi, da principi italiani e stranieri agli imperatori del Sacro Romano Impero Germanico.

Il merito del lavoro del Quieto è consistito in una larga e soddisfacente collazione compilativa delle opere attualmente attribuite a Pompeo Batoni. Molto utili e apprezzabili sono risultate le ricerche di archivio condotte su fonti e documenti riguardanti l’operosa e intensa vita artistica di Pompeo Batoni nella Roma del Settecento. Dalla sua città di elezione – è bene ricordarlo – il pittore non seppe e non volle mai allontanarsi dopo il suo trasferimento dalla natia Lucca nel 1727.

In definitiva, nonostante Pier Paolo Quieto non si sia voluto cimentare sui complessi e complicati percorsi per la scoperta di nuove attribuzioni di opere al pittore lucchese – secondo gli auspici più volte manifestati dal Clark e che neppure le celebrazioni per il 3° Centenario, ghiotta occasione, hanno inteso soddisfare – pur tuttavia il volume del Poligrafico dello Stato costituisce un validissimo ed utile contributo in grado di offrire sia agli specialisti dell’arte del XVIII secolo sia ad una più vasta cerchia di lettori e pubblico colto l’informazione e l’inquadramento pressoché esaustivo sulla pittura di un grande protagonista del classicismo settecentesco.

Pompeo Batoni fu amato ed apprezzato universalmente nella sua epoca, e con lui idealmente e non solo gareggiò Anton Raphael Mengs, l’altro importante più giovane esponente dello stile e dell’estetica del recupero della grande stagione del Rinascimento italiano, mentre all’opera di entrambi i pittori avrebbe guardato e si sarebbe riferito il Winckelmann per corroborare le sue teoriche neo-classiche di fine secolo, sviluppatesi, dopo la scomparsa di questi, sino ai primi decenni dell’Ottocento. Questi rilevanti aspetti della funzione e del ruolo svolto nella storia della pittura moderna dal lucchese sono stati ampiamente ed esaurientemente dimostrati da Pier Paolo Quieto e proprio in considerazione del rilevante ed appassionato lavoro dello studioso, spiace con grande rammarico dover constatare che il notevole apparato iconografico e riproduttivo dei dipinti di Pompeo Batoni abbia sofferto inspiegabilmente, dato l’impegno editoriale profuso dal Poligrafico dello Stato per l’occasione celebrativa, di una cura approssimativa nella resa dei colori della grande, specifica e particolare tavolozza e pennellata del pittore.

È avvenuto, solo per fare un esempio, che nelle riproduzioni del bel volume curato dal Quieto i colori blu e rossi e tutte le loro prodigiose gradazioni realizzate da Pompeo Batoni nel corso di una lunga e gloriosa carriera siano state come passate sotto la famosa “sponga”, idest: spugna con la quale Carlo Maratta – come ricorda Giovan Pietro Bellori – si riservava di cancellare la velatura da lui apposta sul seno della “Madonna con bambino” di Guido Reni per compiacere Clemente XI.

Per questo volume batoniano l’effetto “sponga” ha prodotto un’omologazione omogenea e neutralizzante di tutti i colori della splendente e luminosa tavolozza del pittore lucchese, procurando quindi allo studioso certamente un non lieve imbarazzo dal momento che proprio le analisi diacroniche del Quieto sull’evoluzione compositivo-pittorica dello stesso Batoni rischiano di non essere suffragate dalle riproduzioni stampate.

Nell’epoca attuale in cui la più sofisticata riproducibilità tecnologica dell’opera d’arte  sembra non incontrare più alcun problema quanto alla resa di copie di qualsiasi originale di opere d’arte – con buona pace, stupore e osiamo pensare addirittura compiacimento da parte di Walter Benjamin, se potesse essere di nuovo tra noi – ci si sarebbero aspettati risultati migliori e maggiormente adeguati all’ambizioso progetto del Poligrafico dello Stato di costituire con questa sua edizione un punto di riferimento indispensabile per l’accostamento all’opera di Pompeo Batoni, insieme alla piena e completa valorizzazione del suo classicismo.

I  due volumi, rispettivamente: Pompeo Batoni Prince of Painters in Eighteenth-Century Rome, a cura di Edgar Peters Bowron e Peter Björn Kerber, New Haven-London, Yale University Press,  2008; e Pompeo Batoni 1708-1787 L’Europa delle Corti e il Grand Tour, a cura di Liliana Barroero e Fernando Mazzocca, Milano, Silvana Editoriale, 2008, sono i cataloghi della Rassegna, il primo, dei dipinti esposti al Museum of Fine Arts di Houston e a seguire  alla National Gallery di Londra nel 2008, il secondo della Mostra al Palazzo Ducale di Lucca a partire dal 6 Dicembre 2008 sino al 3 Maggio 2009.

Sia nel primo volume che nel secondo Edgar Peters Bowron, allievo e collaboratore di Anthony Clark, lo studioso che nel 1985 insieme all’allievo pubblicava: Pompeo Batoni. A complete Catalogue of the Works with an Introductory Text, London, 1985, ha recato importanti contributi saggistici, tra i quali spicca in particolare, Pompeo Batoni disegnatore, nel catalogo che accompagna la Mostra di Lucca, pp. 96-119, a dimostrazione della forse più significativa esposizione, mai finora avvenuta così numerosa dei disegni di copie di opere d’arte antiche, di studi del nudo, di disegni a carboncino e con sanguigna in preparazione di moltissime se non pressoché tutte le composizioni pittoriche da parte del lucchese. Si potrebbe dire che proprio i disegni di Pompeo Batoni abbiano costituito la “novità” in grado di caratterizzare la Mostra a Palazzo Ducale per il 3° Centenario della nascita e, al tempo stesso, la pubblicazione del Catalogo, se consideriamo che dal “museo cartaceo” dei disegni del Batoni raccolto dal collezionista Richard Topham, ad esempio, fino ai cinquantatre disegni di Batoni oggi a Eton, «nove dei quali firmati», «sono state definite le più belle copie dell’antichità classica tra quelle sopravvissute» (Bowron). L’erede del Clark ha colto qui anche l’opportunità di offrire dettagliatamente i processi e le tecniche adottate da Batoni nei disegni preparatori per complesse elaborazioni di importanti dipinti, come ad esempio lo scudo in Venere presenta a Enea le armi forgiate da Vulcano, dove «Benchè nel dipinto lo scudo sia raffigurato di sbieco, nel disegno Batoni ne presenta l’intera superficie per delinearne con esattezza la decorazione secondo i versi di Virgilio, nei quali è raffigurata pittoricamente la storia della discendenza di Enea fino ad Augusto. Batoni seguì fedelmente il testo dell’Eneide (8, 608-731), omettendo solo pochi particolari e in qualche caso riunendo alcuni episodi in una sola scena».

POMPEO BATONI, Achille e le figlie di LicomedeIl rapporto di Pompeo Batoni non solo con la scultura antica – qui ottimamente documentata dal Bowron attraverso le copie disegnate dal lucchese – ma con la poesia e la musica del suo tempo – è noto, infatti, come il lucchese amasse il melodramma e l’opera di Pietro Metastasio e fosse assiduo agli spettacoli messi in scena al Teatro delle Dame, al Capranica e al Teatro Argentina, e avesse nella figlia Rufina una cantante di valore capace di affascinare visitatori, acquirenti e illustri ospiti dell’atelier in via Bocca di Leone – ci consente di osservare che oltre al famoso dipinto, Achille e le figlie di Licomede (1746), espressamente ispirato all’Achille in Sciro del Poeta Cesareo, altri dipinti presenti nella Mostra e nel Catalogo, e non presenti, avrebbero potuto consentire interessanti collegamenti tra il pittore e Pietro Metastasio.

Le relazioni tra i linguaggi artistici con la pittura di Pompeo Batoni sono stati esemplati esternamente mediante un CD musicale, messo in vendita alla mostra lucchese, contenente brani di Gasparini, Geminiani, Barsanti, Boccherini, Domenico Puccini, e dulcis in fundo, dopo i compositori lucchesi o di primo Settecento, Domenico Scarlatti e W. A. Mozart. Riguardo invece ai dipinti presenti e non presenti alla Mostra, ad esempio, ma riprodotti nel Catalogo con un titolo differente rispetto all’originale, vi è il caso del quadro, in possesso a Londra agli eredi della collezione Brinsley Ford, di Ulisse abbandona Calypso (1747).

POMPEO BATONI, Enea abbandona Didone

È ormai questo universalmente noto e conosciuto come Enea abbandona Didone. Il dipinto, frutto di una committenza del marchese Andrea Gerini, mecenate e collezionista fiorentino, è stato oggetto nel Catalogo di uno studio di Martina Ingendaay, pp. 372-377, nel quale questa ha ampiamente analizzato le trattative tra il pittore e il marchese a riguardo di un gruppo di opere commissionate, tra le quali è una delle quattro versioni dipinte dal lucchese di Ercole al bivio. Se consideriamo che oltre alla singolare coincidenza del tema a cui si è ispirato il pittore, trattato da Pietro Metastasio nella festa teatrale Alcide al bivio, ciò che sorprende è non solo l’assenza di un’analisi comparata tra la pittura di Batoni e la poesia per il teatro musicale di Metastasio, ma non vi è quella precisamente iconologica a riguardo del dipinto che più che evocare la figura dell’eroe omerico Ulisse e della mitologica Calypso rinvia a quell’Enea rappresentato da Metastasio nel suo famosissimo melodramma, Didone abbandonata, sia per l’analogia e l’assonanza con il tema di Ercole al bivio tra il Vizio e la Virtù, su cui si modella anche l’Enea di Virgilio nel rinunciare all’amore della regina per compiere il virtuoso mandato affidatogli dagli Dei e dal Fato di promuovere la nascita di Roma e così sino all’avvento del Divo Augusto, nella chiave cioè di esaltazione dell’eroico pedigree da cui deriva la famiglia dell’imperatore, sia in particolare per la presenza nel dipinto dello pseudo Ulisse della figura femminile interposta tra i personaggi principali: l’eroe e la donna abbandonata. Proprio questa figura femminile rimanda direttamente al melodramma di Metastasio e cioè a Semele, l’Anna virgiliana, sorella di Didone, come la sfortunata regina segretamente innamorata del progenitore della stirpe romana, così come del resto ostenta pittoricamente l’intrecciarsi delle gambe di Selene a quelle di Enea. Una più attenta analisi semiologica del dipinto avrebbe potuto consentire, a nostro avviso, alla Ingendaay di verificare se la retro intitolazione a una presuntiva tematica indicata dallo stesso Batoni al Gerini, non dimostrata esausistivamente dall’autrice del saggio, non sia stata definitivamente sconfessata già nella prima metà dell’Ottocento da più accorte e puntuali indagini. Del resto, le stesse lettere scambiate tra il marchese Gerini e Batoni avrebbero dovuto chiarire alla Ingendaay come il pittore avesse cambiato il tema originario, Ulisse abbandona Calypso, in quello definitivo di Enea abbandona Didone, se è vero come è vero, che il lucchese non solo impiegò molto tempo prima di far pervenire al committente i quattro quadri commissionatigli, ma oltre tutto quando nel 1767 il marchese Andrea Gerini decise di esporli nella sua galleria fiorentina il titolo del quadro e il tema rappresentato riguardava inequivocabilmente la vicenda virgiliana, rilanciata non solo dalla Didone abbandonata di Metastasio, messa in scena la prima volta a Napoli nel 1724 con la musica del Sarro, ma rievocata proprio nello stesso anno 1747 della composizione pittorica di Batoni da una nuova rappresentazione al Teatro Argentina con la musica di Niccolò Jommelli. La forte connotazione teatrale di tanti dipinti di Pompeo Batoni, il suo amore per il melodramma avrebbero potuto indurre prudenza nella studiosa nell’accreditare, pur sempre nell’ambito di un’indagine sull’epistolario di Batoni, spericolate ipotesi di “nuove” intitolazioni ai dipinti, solo se questa ed altri storici dell’arte usassero talora maggiore attenzione per la storia comparata delle arti e della cultura.  In ogni caso, resta inspiegato e inspiegabile perché la Ingendaay non abbia ritenuto di esaminare le ragioni per le quali il dipinto sia stato esposto alla National Gallery di Londra dal  Bowron, con il titolo ormai definitivo di Enea abbandona Didone, Londra, collezione eredi di Sir Birsley Ford, nonché nel volume curato da Pier Paolo Quieto per il Poligrafico dello Stato, e abbia invece inopinatamente voluto asseverare un titolo e un tema mai peraltro trattati  da Batoni in altre occasioni e neppure preparato, secondo le sue abitudini, attraverso disegni o schizzi preparatori.

POMPEO BATONI, Nudo accademico, 1775Liliana Barroero, curatrice del Catalogo della Mostra lucchese, insieme a Fernando Mazzocca, ha avuto ben presente la circolazione degli ideali estetici nella Roma del pieno Settecento se all’inizio di uno dei due suoi saggi in questo volume, L’antico, gli antichi. Batoni e l’ambiente erudito romano, cita un illuminante passo di una lettera di Pompeo Batoni del 4 novembre 1740, in cui sono rinvenibili straordinarie assonanze con la poetica di Pietro Metastasio.

Così scriveva Pompeo Batoni:

 

«Deve una pittura buona avere similitudine al bello del vero, che vale a dire il vero purgato con le forme greche, che queste sono quelle che ci danno norme a conoscere il bello et il difettoso della natura essendo impossibile il trovare la natura perfetta».

 POMPEO BATONI, Endimione dormiente, 1730 ca.

Se Batoni in questa considerazione del 1740 mostra una ferma e convinta adesione al classicismo settecentesco, con Pietro Metastasio condivide la metaforizzazione della natura in ciò che essa offre come bello e difettoso, trasfigurando il lucchese  entrambi i dati naturali con le “forme greche”, mentre al poeta le virtù-valori valgono quali innalzamento del sensibile naturale all’ordinamento del senso e del significato del bello poetico, cioè alla costruzione dell’ammirazione per la giustizia, l’amore, l’amicizia, il perdono, la pietà.

Nella traduzione dell’Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, meglio conosciuta come Dell’arte Poetica di Orazio, Metastasio fa sue le raccomandazioni del poeta latino espresse nel famoso verso: Ut pictura poësis erit, e nell’Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile (a cura di E. Selmi, Palermo, Novecento, 1998, Cap. I, p. 17) rende  ancora più esplicita la connessione tra le arti e, al tempo stesso, il loro distinguersi solo attraverso gli istromenti linguistici propri di ognuna di esse:

«Può essere così il poeta, come il pittore, eroico, pastorale, grande, umile, serio o giocoso, possono entrambi valersi dell’invenzione e del vero e si studiano entrambi di esprimere gli affetti umani e di abbellir (corsivo nostro) la natura; or, se non si distinguessero per li differenti mezzi, o siano istromenti de’ quali si vagliano per far le loro imitazioni, per qual altra cosa mai sarebbero le loro arti distinte? »

Quanto alle imitazioni eseguite da Pompeo Batoni, la Barroero documenta esaurientemente le prove del lucchese  sull’esercizio di grande inarrivabile copista dell’antico fin dai primi anni romani, grazie all’accumularsi dinanzi ai suoi occhi della scultura greca e romana, affluita con gli scavi nelle collezioni papali, da papa Albani Clemente XI a papa Corsini Clemente XII, e nel Museo Clementino.

POMPEO BATONI, Il colonnello William Gordon, 1765

Saranno le copie ad imitazione del bello nella scultura antica a fornire a Batoni sfondi e controparte di quasi tutti i dipinti mitologici e, in particolare, dei ritratti dei milordi. La Barroero cita a tale riguardo la testimonianza dell’amico del pittore, il letterato e diplomatico Francesco Benaglio, autore anche di una biografia (non completata) dello stesso Batoni, raffigurato poi da questi in un famoso ritratto: «I disegni del Battoni erano venuti di moda; niun nobile viaggiatore inglese sarebbe ritornato alla sua isola, senza averne fatta la maggior raccolta, che avesse potuto».

 

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NATASHA KORSAKOVA, violino
SIMONE SOLDATI, pianoforte
FABRIZIO GIOVANNELLI, pianoforte
MARIO ANCILLOTTI, flauto
JONATHAN BRANDANI, organo

In margine a queste pubblicazioni per le celebrazioni del 3° Centenario della nascita di Pompeo Batoni, cade a proposito sia il ruolo dell’imitazione-copia dell’antico come controparte di tanti dipinti sia proprio il ritratto dell’amico Benaglio, per esporre alcune perplessità, dubbi e ragioni a favore di un altro famoso dipinto, precisamente quello conosciuto, fino agli anni Duemila, come Ritratto di Pietro Metastasio, ed attribuito a Pompeo Batoni, appunto fino alla vendita realizzata da Christie’s a Roma nel giugno 2000, trasferendone però la titolarità autoriale a Martin van Mytens II, pittore di corte a Vienna alla fine degli anni Quaranta del Settecento.

Prima di addentrarci nella quaestio di questa sorprendente nuova attribuzione, vale la pena di osservare che forse proprio l’assenza di una controparte dell’antico nel Ritratto di Pietro Metastasio ha condotto diversi studiosi – tra i quali uno tra i più importanti studiosi oggi del Batoni, cioè Edgar Peters Bowron – a ritenere senza alcun dubbio che il dipinto non è da attribuire al pittore lucchese. Infatti, il Bowron così scriveva all’autore di questa recensione nell’autunno 2007:

«Il ritratto di Metastasio è un dipinto assolutamente superbo, ma sono sicuro che non è di Pompeo Batoni. Le Sue osservazioni riguardo all’impossibilità che l’autore del quadro possa essere Martin van Mytens sono verosimili e molto interessanti. Appena tornerò a Houston, dopo le vacanze, farò delle ricerche in biblioteca e Le prometto che Le comunicherò il vero autore del Ritratto di Pietro Metastasio. Ho già qualche idea a riguardo. Edgar Peters Bowron».

Dopo questa lettera, purtroppo, il Bowron non dava seguito alla promessa di trovare e rivelare l’autore del più famoso ritratto dal vero di Pietro Metastasio.

POMPEO BATONI, Pietro Metastasio

POMPEO BATONI, Pietro Metastasio

 

Neppure nei cataloghi delle Mostre a Houston-Londra e a Lucca la questione non unica e sola delle numerose attribuzioni a Pompeo Batoni, e/o la scoperta di nuovi dipinti da assegnare al lucchese, confortavano le celebrazioni del pittore – come ci si sarebbe aspettato nella ricorrenza del 3° Centenario della nascita – mentre, inaspettatamente, Francesco Petrucci nella Mostra a Castel Sant’Angelo, tra dicembre 2008 e marzo 2009, e nel rispettivo Catalogo, Artisti a Roma Ritratti di pittori scultori e architetti dal Rinascimento al neoclassicismo, Roma, De Luca, 2008, presentava e faceva riprodurre un dipinto settecentesco come nuovo ritratto di Pietro Metastasio, mai finora conosciuto e noto agli studiosi, e attribuendone la paternità a Martin van Mytens II in virtù della straordinaria somiglianza non già alla pennellata e allo stile del pittore svedese,  quanto piuttosto ritenendo la fisionomia del volto del dipinto esposto a Castel Sant’Angelo pressoché identico a quello del quadro venduto da Christie’s nel 2000. Ad ulteriore suffragio della scoperta, il Petrucci citava nel Catalogo della Mostra di Castel Sant’Angelo che già lo storico e critico della letteratura italiana, Walter Binni, fin dal 1968, nel saggio Pietro Metastasio e l’Arcadia,  nella Storia della Letteratura italiana, a cura di Natalino Sapegno e Emilio Cecchi, Milano, Garzanti, 1968, aveva attribuito a Martin van Mytens il Ritratto di Pietro Metastasio, essendosi limitato il Binni (o chi per lui) a fare apporre una mera e semplice didascalia sotto la riproduzione in bianco e nero del dipinto.

A fronte di queste spericolate ipotesi e dinanzi a “vere” attribuzioni mai come in questa occasione così scarsamente documentate e fondate, a meno che non ci si voglia attenere con il Petrucci alla “valutazione” dell’autore del dipinto al gratuito parere di un critico letterario come Walter Binni, si rimane francamente stupefatti che sia stata messa in dubbio, fino a cancellarla del tutto, l’expertise di uno tra i più rilevanti collezionisti dell’arte classica italiana, Charles Fairfax Murray, storico dell’arte, pittore pre-raffaellita tra i più interessanti della corrente artistica del secondo Ottocento, amico e collaboratore di John Ruskin, consulente della National Gallery di Londra e del Metropolitan Museum di New York, autore di scoperte in Italia di dipinti del Beato Angelico e del Bronzino, nonché acquirente nel 1911 a Londra del Ritratto di Pietro Metastasio, come dipinto di Pompeo Batoni.

Il quadro, sottoposto a sequestro dal Governo fascista, insieme ad altre rilevantissime opere della collezione dello storico e grande esperto d’arte, a seguito dello scoppio della II Guerra mondiale e della dichiarazione di guerra dell’Italia alla Gran Bretagna nel 1940, fu restituito ai legittimi proprietari nel 1947 dal Governo della Repubblica italiana e rimase in possesso del Murray e dei suoi eredi a Villa Murray, Montebuoni, Firenze, fino agli inizi degli anni Novanta del secolo passato.

Occorre peraltro osservare che nell’atto notarile di restituzione si asseverava a Pompeo Batoni il Ritratto di Pietro Metastasio, e che il dipinto fu sempre riprodotto come opera del pittore lucchese nelle più importanti Enciclopedie del mondo, tra cui la stessa Enciclopedia Italiana Treccani.

Nel giugno 2000 il dipinto di cui gli eredi Murray, consultati dallo scrivente, s’erano disfatti “perdendone qualsiasi memoria”, ricomparve improvvisamente messo in vendita da Christie’s a Roma, ma con attribuzione a Martin Van Mytens II, decretata dal Prof. Riccardo Lattuada nel catalogo dell’asta, pur essendo priva tale attribuzione delle necessarie testimonianze d’archivio, ossia di riscontri documentari oggettivi.

Ad ogni buon conto, l’expertise del Lattuada con la nuova attribuzione del ritratto di Pietro Metastasio a Martin Van Mytens II deve aver fatto scuola, come si dice, se nove anni dopo un secondo ritratto del Poeta Cesareo è stato di bel nuovo e temerariamente attribuito al pittore svedese, nonostante la pressoché inesistente somiglianza tra i due personaggi rappresentati.

L’evidente discordanza tra i due ritratti può essere valutata ad occhio nudo, per così dire, da chiunque legga e visiti queste pagine web e confronti le riproduzioni dei due dipinti.

In particolare, quello del personaggio indossante una vistosa giacca rossa – abbigliamento peraltro mai adottato da Pietro Metastasio stando alle cronache del suo tempo viennese e ai pochi altri ritratti dal vero del poeta – ostenta un volto rubizzo e grassoccio, un’espressione tra il sardonico e il badiale, confidenziale e declassata, soluzioni figurative entrambe inadatte e improprie sia per il Poeta Cesareo che per il supposto esecutore del dipinto, il pittore di corte Martin Van Mytens II, mentre fino ad oggi il personaggio in giacca rossa era stato ritenuto opera del pittore napoletano Giuseppe Bonito, la cui cifra artistica, satirico-parodistica, era apparsa fino ad ora più congrua per l’attribuzione a questi del ritratto.

A parte tali discordanze di stile, per così dire, i due volti ritratti non hanno nulla in comune e non rinviano quindi al medesimo personaggio storico.

Occorre ribadire, ad ogni buon conto, che non esiste a tutt’oggi, fatte salve nuove improbabili scoperte,  alcuna documentazione negli archivi viennesi di questi ritratti come opere di Martin van Mytens II: non nella Nationalbibliothek, né al Kunsthistorisches e neppure al BildArchiv, con buona pace di tutti coloro, studiosi o appartenenti al ceto dei colti, che tengono giustamente in grande conto la severa e rigorosa reputazione bibliotecario-archivistica mitteleuropea, di matrice e origine asburgica.

D’altro canto, neppure nell’epistolario di Pietro Metastasio, nel quale scrupolosamente il poeta descrive e annota tutti i ritratti, incisioni di medaglie, e disegni dedicati alla sua figura e alle sue fattezze, appare una pur indiretta conferma che il pittore di corte abbia fatto non un solo suo ritratto – figuriamoci due – come invece oggi si vorrebbe far credere, non si sa bene a quale scopo se non fosse quello – riteniamo – di accreditare fantasiose agnizioni, prive delle relative prove documentarie, e di screditare, all’opposto e al tempo stesso, il ritrovamento a Londra da parte di Charles Fairfax Murray nel 1911 dell’unico superbo ritratto, dal vero, di Pietro Metastasio come opera di Pompeo Batoni.

Ci appare lecito, perciò, nel concludere l’esame delle tre importanti pubblicazioni che hanno contribuito a celebrare la figura e l’opera di Pompeo Batoni, protagonista in pittura del classicismo settecentesco in Italia e in Europa, collegato culturalmente e idealmente al teatro musicale di Metastasio, esprimere il nostro rammarico nei confronti di un’operazione attributiva di un dipinto che, configuratasi come revisionistica, e soprattutto priva delle necessarie ed abituali prove ed indagini scientifiche, ha prestato il fianco a sconsolanti considerazioni circa lo stato di crisi nel quale appare versare l’attuale livello della storia e della critica d’arte, quando entrambe preferiscono rinunciare e disattendere ai loro compiti scientifici per l’accertamento della verità.

 

6 Giugno 2009                                                                   Mario Valente

Martin van Mytens II (?), Ritratto di gentiluomo in giacca rossa

Martin van Mytens II (?), Ritratto di gentiluomo in giacca rossa

 

 

 

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