(vai alla recensione)

Il paradosso dell’architetto e la fortuna de Il trionfo di Clelia (Metastasio-Gluck) nell’inaugurazione del Teatro pubblico di Bologna il 14 maggio del 1763

Qualche antefatto, ovvero retroscena

Può un architetto, Antonio Galli Bibiena (Parma, 1697-Milano, 1774), sciogliere il rassicurante sodalizio che ne fa, prevalentemente, un affermato “dipintore” di scene, ovvero scenografo e affrescatore di teatri, accanto e in funzione del fratello Giuseppe – lui sì grande progettista e costruttore di teatri a Vienna e in Europa –, dopo che, naturalmente, questi vengono tutti commissionati al fratello, abbandonare Vienna e tornare in Italia per cercarvi fortuna come vero e proprio, ed anch’egli, finalmente, costruttore di fabbriche dello spettacolo?

La coraggiosa decisione di Antonio, figlio di Ferdinando Galli Bibiena e nipote di Francesco, entrambi autorevoli e laureati architetti al servizio degli imperatori Asburgo, attiene alla vicenda dell’inaugurazione del Teatro pubblico di Bologna il 14 maggio del 1763, di cui Antonio assunse l’incarico progettuale seguendone l’esecuzione in un alquanto lungo periodo di tempo, dal 1754 fino al compimento dell’opera, appunto, nella primavera del 1763.

A distanza di 250 anni dallo storico evento, il Teatro comunale della città felsinea celebra l’anniversario, facendo rappresentare il melodramma Il trionfo di Clelia di Pietro Metastasio, musica di Christoph Willibald Gluck, con il quale lo stesso teatro venne aperto al pubblico ed ebbe così inizio la sua lunga e gloriosa vita artistica.

Ma – è bene ricordarlo per i molti e diversi problemi artistico-culturali implicati, tali da proiettare sul presente importanti spunti di riflessione –, la definitiva approvazione del progetto esecutivo di Antonio Galli Bibiena, e la stessa non scontata scelta del dramma da mettere in scena per l’inaugurazione furono motivo di non pochi contrasti e di complesse decisioni, facendo alla fine prevalere, rispetto alla rappresentazione de Il trionfo di Clelia, le pur anco laboriose ragioni costruttive del Teatro pubblico, così come i 12 cambiamenti di scena con le rispettive macchine approntati dall’architetto, sulle conclamate capacità di coinvolgimento degli spettatori bolognesi sia della poesia di Pietro Metastasio che della musica di Ch. Willibald Gluck.

Antonio Galli Bibiena, intanto, conquista la committenza bolognese dopo avere allestito l’Artaserse a Milano, nel 1751, nel Ducal Teatro Regio, passando poi nel Granducato di Toscana per progettare e costruire successivamente nel 1752  a Siena il Teatro dei Rinnovati, a Pistoia nel 1754-55 il Teatro dei Risvegliati, mentre sempre nel 1754 riceve l’incarico dagli Accademici Immobili a Firenze di presentare un progetto per la trasformazione in muratura del Teatro della Pergola, e progetta e fa costruire, tra il 1754 e il 1760, a Colle Val d’Elsa, il Teatro dei Varii, e, nello stesso 1754 a Livorno progetta lo Stanzone della Commedia, di cui però realizzerà soltanto gli scenari, così come vedrà ridursi l’incarico di progettare il nuovo Teatro della Pergola a Firenze alla sola progettazione degli scenari.

La terza variante del progetto presentato per il Teatro della Pergola, in muratura, non accettato dagli Immobili  viene proposta da Antonio come primo progetto per la realizzazione sul terreno del Guasto del Teatro Pubblico di Bologna.  

È proprio la lunga trattativa per l’acquisto da parte della commissione di nobili bolognesi della “desolata area del Guasto” dalla famiglia dei conti Bentivoglio d’Aragona a condizionare l’inizio del cantiere per la costruzione del Teatro Pubblico alla data del 21 aprile 1756; ma già nel luglio dello stesso anno i lavori vengono sospesi per riprendere il 19 marzo del 1757, a seguito di nuovi disegni richiesti ad Antonio Galli Bibiena e da questi successivamente fatti pervenire a Prospero Lambertini, papa Benedetto XIV, il quale dando la sua approvazione, mette fine a tutte le opposizioni al progetto dell’architetto, manifestate sia a motivo delle notevoli dimensioni del nuovo Teatro in muratura, sia per il peso della grande struttura su un terreno argilloso e attraversato da vicini corsi d’acqua sottostanti, sia, infine, per mere questioni di rivalità e competizione professionale.

In ogni caso, Antonio corrobora le modifiche apportate con la presentazione il 3 aprile del 1757 di un modello ligneo del Teatro presentato alla popolazione bolognese quale sua nuova progettazione nella quale il suo teatro “a campana” con il progetto dell’atrio, della sala e dei palchi è la prova sensibile, erga omnes, del suo impegno e delle sue capacità.

Ma è soltanto con la progettazione della 2ª variante, il 5 aprile del 1758,  con la forte riduzione delle dimensioni dell’atrio, della sala e dei palchi, e con l’invio dei nuovi disegni a Roma, che i lavori possono proseguire fino ad arrivare alla sospirata inaugurazione nella primavera del 1763, con l’aggiunta, fondamentale come si vedrà,  dell’allestimento di 12 scene con le relative macchine sceniche.

Il Teatro pubblico di Bologna, in pietra e muratura, diviene realtà, nonostante le dure critiche mosse, stavolta, dal famoso dotto, letterato e filosofo, corrispondente di Metastasio, quel Francesco Algarotti che nel Saggio sopra l’opera in Musica, nel farlo pubblicare nel 1763, in coincidenza con l’inaugurazione del Teatro, mostrava tutta la sua avversità alla costruzione di sale di spettacolo in “pietra” al posto di quelle in legno, e ricordava, ammonendo, come «mettevano gli antichi ne’ loro teatri i vasi di bronzo, affine di aumentare la voce degli attori, quando essi teatri erano di materia dura ».

Metastasio e Gluck a Bologna e la questione della riforma del melodramma

Come i nobili della commissione per la nascita del Teatro Pubblico di Bologna, dal conte Luigi Bevilacqua agli esponenti della eminente famiglia Bentivoglio al principe Gian Luca Pallavicini, arrivarono a scegliere Il trionfo di Clelia?

L’ultimo dramma composto dal Poeta Cesareo l’anno prima, e messo in scena il 27 aprile 1762 a Vienna al Burgtheater per celebrare la nascita dell’erede delle AA.RR. Isabella di Borbone e Giuseppe d’Asburgo, messo in musica da Johann Adolph Hasse, aveva ottenuto un notevole successo.

Il Burgtheater nell'estremità a destra

Il Poeta Cesareo, messo duramente alla prova dal nuovo corso impresso all’opera seria a Vienna dal librettista Ranieri de’ Calzabigi e dal compositore tedesco Christoph Willibald Gluck, sotto la protezione e la direzione del nuovo Direttore degli spettacoli imperiali, il conte genovese Giacomo Durazzo, aveva reagito da par suo scrivendo un dramma che rinverdiva i temi della indipendenza morale ed affettiva della donna, già magistralmente espressi all’esordio della sua lunga carriera, a Napoli nel 1724 nella Didone abbandonata, rievocando attraverso le gesta eroiche della giovinetta Clelia, insidiata dall’etrusco Tarquinio, sia l’amore per il proprio popolo, i Romani, oppressi dai potenti vicini, sia le prospettive di nuove alleanze con genti disposte a convivere in pace, i Veienti.

Le figure del melodramma metastasiano, rinviando ai protagonisti politici della Guerra dei Sette anni e alla ormai irrevocabile competizione tra l’Impero degli Asburgo e la Prussia in Europa, rilanciavano la funzione simbolico-universale della poesia per il teatro musicale di Pietro Metastasio, cosicchè Il trionfo di Clelia dal 27 aprile fino al 25 giugno 1762 venne replicato con grande successo con altre nove rappresentazioni.

L’opera seria italiana con Metastasio, affermatasi a partire dal 1730, sotto Carlo VI, e proseguita oltre la scomparsa di questo imperatore nel 1740, sotto Maria Teresa, fino a tutti gli anni Cinquanta del Settecento, a causa delle restrizioni finanziarie per gli spettacoli musicali dovuti al susseguirsi di guerre in cui la Casa Asburgo era stata coinvolta per venti anni, aveva reso necessario l’affidamento ai privati della gestione dei teatri pubblici a Vienna, e la forte riduzione degli spazi concessi allo spettacolo nei palazzi imperiali della Hofburg, mentre l’affacciarsi di nuove figure di grandi compositori, come Ch. W. Gluck, in grado di coinvolgere diversi ceti e classi sociali con il cambiamento delle forme comunicative proprie dell’opera seria italiana, aveva quasi messo in discussione l’egemonia artistico-culturale del Poeta Cesareo.

Il successo conseguito dal melodramma Orfeo ed Euridice di Gluck, su libretto del Calzabigi nell’ottobre del 1762 a Vienna, nel Burgtheater, dava l’occasione ai nobili di Bologna, in occasione dell’inaugurazione del Teatro Pubblico, di riunire, sotto lo stesso tetto e in una occasione irripetibile, due tra i maggiori protagonisti del melodramma, lo spettacolo universale del tempo, aggiungendo agli apporti del Poeta Cesareo e di Gluck, astro nascente della musica a Vienna, la magnificenza evocativa sia della struttura teatrale appena costruita da Antonio Galli Bibiena, sia in particolare i suoi spettacolari mutamenti di scena e le macchine teatrali, del tutto idonee a rafforzare la partecipazione alla narrazione poetico-drammatica di Metastasio, esaltata dal fuoco maraviglioso della musica dell’autore di Orfeo ed Euridice.

Il conte Luigi Bevilacqua, impresario in pectore del Teatro Pubblico, dopo avere tergiversato con l’iniziale propensione di Ch. Willibald Gluck per la messa in musica della più famosa L’Olimpiade (Metastasio, Vienna, 1733), tagliava la testa al toro e scrivendo al suo fiduciario a Vienna, l’abate Lodovico Preti, pregava quest’ultimo di significare al musicista le ragioni della sua irrevocabile decisione a favore della messa in musica de Il trionfo di Clelia:

[…] quanto alla scelta da noi fatta del Dramma, che egli mostra di non approvare, non siamo più in tempo di ripiegarci, avendo già fatte per metà le scene addattate al Libro e già ordinato il vestiario.

La testimonianza postuma del gesuita Alfonso di Maniago sul ruolo esercitato dagli allestimenti e mutamenti di scena preparati da Antonio Galli Bibiena confermò le previsioni e decisioni del conte Bevilacqua:

[…] quello che veramente appaga, e tutti confessano essere cosa sorprendente, è lo scenario. […] L’autore è il Signor Ferdinando [sic] Bibiena, già conosciuto per maestro nel dipingere scene. Ma per Bologna sua patria ha voluto metter fuori il non plus ultra dell’arte. Ne ha fatto ben dodici mutazioni, la una più spettacolosa dell’altra, sopra tutte quella del ponte del Tevere dicon essere arcimirabile. Poiché dovendosi rappresentare che questo ponte si ruppe per lo combattere dei romani contro gli etruschi, tal rottura passa ogni dire et ogni immagine.

A posteriori, ovvero dopo 250 anni di inesauribili querelles sull’opera seria italiana del Settecento, sappiamo tutto o quasi tutto sugli obiettivi della riforma gluckiana: come il pubblico potesse essere profondamente coinvolto nella rappresentazione mediante la drastica riduzione dei recitativi “secchi” non accompagnati dalla musica, e con il costante continuo raccordo tra i recitativi, accompagnati, stavolta, da diversi strumenti, con le arie, a loro volta private dei molti da capo e della  ripetizione di versi per favorire le colorature e il virtuosismo belcantistico.

Ebbene, il testo di Metastasio adottato da Johann Adolph Hasse per la prima rappresentazione de Il trionfo di Clelia a Vienna, fu lo stesso impiegato da Ch. Willibald Gluck per l’inaugurazione del Teatro Pubblico di Bologna il 14 maggio del 1763, eccezion fatta per i tagli dovuti alla soppressione di ripetizioni di versi all’interno di recitativi accompagnati e nelle arie, in funzione delle preferenze espressivo-musicali dell’autore di Orfeo ed Euridice, al fine di offrire e realizzare quella continuità comunicativo-drammatica perseguita sopra ogni cosa da Gluck.

Del resto, a poco più di un decennio dall’inaugurazione del Teatro Pubblico, Padre  Martini, nel 1776, nel fornire il suo parere all’abate Arnaud nella querelle tra gluckisti e piccinnisti, in quegli anni imperversante a Parigi, dava un giudizio di merito su Il trionfo di Clelia, ovvero sul rapporto costruito in quest’opera tra poesia e musica, e molto favorevole all’intonazione del compositore tedesco, che ancora oggi si mostra in tutta la sua esauriente chiarezza ed esemplare semplicità di giudizio:

Il sig. Cav. Gluck nelli suoi tre drammi accennatimi ha cercato di dare alle parole tutta la più viva e forte espressione, con la mozione degli affetti, ed ha procurato più tosto che la musica serva alle parole, che questa alla musica. E in occasione ch’egli fece l’opera per l’apertura del nuovo Teatro in Bologna, essendosi degnato di una sua visita, mi rallegrai seco, ch’egli avesse saputo unire tutte le più belle parti della musica Italiana, con alcune della Francese, così pure il bello della musicca strumentale dei Tedeschi.

Edda Conte, Mario Valente

Roma, maggio 2013

I MUSICISTI  E  LE  ESECUZIONI
di

Il trionfo di Clelia

Dramma per musica di Pietro Metastasio (Vienna, 1762)

  1. Johann Adolph HASSE, Vienna, Burgtheater, 27 aprile 1762 (ed altre 9 rappresentazioni fino al 25 giugno);

  2. Johann Adolph HASSE, Varsavia, Regio Teatro, 3 agosto 1762, con inserimento nuove parti musicali;

  3. Johann Adolph HASSE, Napoli, Teatro Reale di San Carlo, 20 gennaio 1763, con inserimento nuove parti musicali;

  4. Diversi maestri di cappella, Genova, Teatro del Falcone, carnevale 1763;

  5. Christoph Willibald GLUCK, Bologna, Nuovo Pubblico Teatro, 14 maggio 1763, Scene di Antonio Galli Bibiena, Macchinismi di Petronio Nanni, Abiti di Pietro Antonio Biagi, Balli di monsieur Augusto Hus: Il riposo interrotto; Le Fontane Incantate;

  6. Johann Adolph HASSE, Praga, Regio Teatro, autunno 1766;

  7. Giuseppe MYSLIWEČEK, Torino, Regio Teatro, autunno 1766;

  8. Ferdinando BERTONI, Padova, Nuovo Teatro, giugno 1769, Poesia di Metastasio “in parte cangiata”;

  9. Gio. Battista BORGHI, Napoli, Real Teatro di S. Carlo, 30 maggio 1773;

  10. Niccolò JOMMELLI, Lisbona, Real Teatro dell’Ajuda, 6 giugno 1774;

  11. Giuseppe MICHL, Monaco di Baviera, Nuovo Teatro di Corte, carnevale 1776;

  12. Angelo TARCHI, Torino, Regio Teatro, carnevale 1787;

  13. Angelo TARCHI, Piacenza, Regio Ducale Teatro della Cittadella, primavera 1787;

  14. Sebastiano NASOLINI, Milano, Teatro Grande alla Scala, carnevale 1799, con modifiche al libretto di Metastasio di Antonio Simone Sografi.


(vai alla presentazione)

Il mestiere del Tiranno o il sogno della Libertà ne Il trionfo di Clelia (Metastasio-Gluck)?

Bologna, Teatro Comunale
250° anniversario dell’inaugurazione (14 maggio 1763-14 maggio 2013)

Repliche: 16, 17, 19, 21 e 22 maggio 2013

Il testo è il testo, e il libretto del Settecento è il libretto per il teatro musicale.

Specie se l’autore è Pietro Metastasio, Poeta Cesareo degli imperatori d’Asburgo, da Carlo VI a Maria Teresa a Giuseppe II, dal 1730 al 1782, è d’uopo raccomandare la massima attenzione nel rappresentare il dramma Il trionfo di Clelia, messo in musica da Christoph Willibald Gluck.

Al regista Nigel Lowery sembra invece sia pressoché sfuggita la drammatica semplicità di questa tautologia.

Reduce dalla Royal Opera House di Londra dove ha curato la regìa dello stesso melodramma, ha riproposto le sue chiavi di lettura in occasione del 250° anniversario dell’inaugurazione del Teatro Pubblico di Bologna – oggi Teatro Comunale – (1763-2013) – che allora come oggi ebbe la messa in scena de Il trionfo di Clelia. Nonostante i numerosi tagli sul testo poetico di Metastasio, alla fin fine Nigel Lowery su di esso ha dovuto e potuto sviluppare la sua interpretazione attualizzante, con il dichiarato non sotteso intento di coinvolgere emozioni e passioni, sensibilità e gusti, molteplici e variegate stratificazioni culturali, oggettivamente visibili e subliminali, evocate ad uso e in funzione del pubblico dei nostri giorni.

Porsenna nella biblioteca

È così che il giovane ed affermato regista ha rappresentato/trasformato Clelia, rispetto sia alla prima del melodramma a Vienna con la musica di Hasse nell’ottobre del 1762 che nella famosa messa in scena bolognese del maggio 1763, con la scenografia di Antonio Galli Bibiena, architetto-progettista del Nuovo Teatro Pubblico, e con la musica di Gluck, da quasi indomita riedizione dell’orgogliosa Didone metastasiana, in un personaggio dai marcati tratti e comportamenti stolidamente mascolini e guerreschi, ben lontani, ovvero quasi affatto estranei al personaggio disegnato da Metastasio ed esaltato tanto dalle musiche di Hasse quanto da quelle del recente e trionfante compositore di Orfeo ed Euridice a Vienna.

Il re Porsenna, da sapiente arbitro di un potere politico assoluto sovraregionale, viene presentato dal Lowery come un torpido sovrano lontano dalla viva e difficile realtà dei suoi sudditi, perso in non meglio identificati interessi di studioso.

La giovane figlia Larissa (promessa per Ragion di Stato al principe-re Tarquinio), pur null’affatto insensibile ai diritti del cuore e della propria ed altrui libertà nel melodramma di Metastasio, è trasformata dal Lowery in un essere indefinito, non più fanciulla-non ancora donna, sempre vorticosamente in scena con una bambolina nelle mani, nelle moderne vesti di un’educanda da collegio di suore.

Il principe-re Tarquinio, inquieto spasimante di Clelia, da orditore di intrighi ed inganni in un giullare più simile al jocker di Batman, alla ricerca continua dell’improbabile colpo da novanta per far fuori i nostri eroi.

Orazio Coclite, mito leggendario dell’affrancamento di Roma dalla dominazione etrusca, così come scolpito dalle fonti storiche ed anche in parte nel dramma del Poeta Cesareo, è invece raffigurato dal Lowery come un evanescente personaggio, gelido e indecorosamente incerto se riavere tra le braccia Clelia, destinata sposa, salvandola dalle voglie di possesso del turpe Tarquinio, oppure, come Orazio finirà per preferire, perseguire esclusivamente la salvezza di Roma, rendendosi così disponibile ai loschi e truffaldini intrighi dell’etrusco per uno scambio/svendita tra l’amore e la patria.

Ed infine Mannio, principe dei Veienti (segretamente innamorato di Larissa), personaggio esemplare nella figuratività metastasiana, quasi simbolo dell’origine delle nuove alleanze di Roma e della convivenza dei popoli sotto l’Impero degli Asburgo, diviene un querulo servizievole lacchè disposto a tutto pur di ottenere dal regista l’ordine di fermarsi sulla scena, dopo aver corso a perdifiato da un capo all’altro, chiudendo, tra gli altri compiti affidatigli, sipari e siparietti.

La configurazione attualizzante dei personaggi del melodramma da parte di Nigel Lowery vorrebbe fare risaltare contrapponendoli l’uno all’altro, avvalendosi di un’ampia spazialità scenica totalmente occupata e attraversata dai frenetici movimenti dei protagonisti e da suggestivi quanto arditi cambiamenti di scena quali rinvii al prima e al dopo dei mutamenti storico-epocali evocabili, ora l’insopportabile peso della tirannide, dei suoi auto-da-fé e di tutti gli arbitrii autoritari, ora le ansie di libertà e di affrancamento dei diritti all’amore al bene alla giustizia, proposti dai personaggi positivi, Clelia, per prima, Orazio e, in qualche misura, da Larissa e alla fin fine dallo stesso Mannio, pur anche nella fissità paradossale/caricaturale in cui questi viene costretto dalla scelta registica, nonostante tutto il suo darsi da fare.

Mannio cambia la scena

In qualche modo risulta difficilmente caratterizzato, proprio quel Tiranno, l’etrusco re Porsenna, che, rappresentato prima come un improbabile distaccato esoterico re sapienziale nella sua biblioteca dai tratti scenografici disegnati su Antonello da Messina, poi, sollecitato dalla figlia Larissa che quasi svuota dei libri la biblioteca paterna, consegnandone a Clelia buona parte per un quanto mai equivoco rogo sul palcoscenico, finisce per dare a ciascuno il suo: agli eroi romani, nobili d’animo e coraggiosi, l’indipendenza, a Tarquinio, principe-re degenere, l’onta della sconfitta con la rinuncia definitiva di ogni pretesa di comando e possesso e su Clelia e su Roma.

Sullo sfondo della scena, tra l’intrigo ordito da Tarquinio per ottenere da Orazio lo scambio tra Clelia e la libertà di Roma e il disvelamento della macchinazione da parte  di Mannio, vero deus-ex-machina del drammatico intreccio, occhieggia minaccioso il profilo di una struttura industriale, camini fumanti e capannoni, forse di ascendenza soviettista, più probabilmente individuabile nelle periferie con fabbriche di Vespignani.

Allusione questa – direi alquanto peregrina per un plot grondante magnanimità settecentesca –, in grado di evocare il destino futuro e postumo di cuori amanti e di nobili intemerati eroi pronti ad immolarsi per il bene comune, la libertà e la dignità dell’uomo; precipitati, invece, a produrre alla catena di montaggio il compenso minimo indispensabile per la mera sopravvivenza quotidiana.

Un’eterogenesi dei nobili fini e valori dell’esistere che certamente né Metastasio e neppure Gluck avrebbero mai potuto né pensare né prevedere!

Il taglio attualizzante della regìa ha quasi l’effetto sorprendente di smontare l’assetto de Il trionfo di Clelia da opera seria fino a trasformarla quasi in opera buffa, ricorrendo, ad esempio, alla proiezione di una sorta di ombre cinesi – raccolte in una stretta striscia nerastra di silhouettes per descrivere l’azione gloriosa di Orazio nel contrastare sul ponte Sublicio il tentativo di irruzione in Roma degli etruschi, seguita dall’incendio della struttura lignea e del precipitare dei contendenti nel Tevere.

A questo espediente registico, pallido e pressoché misero rifacimento della famosa  ed acclamatissima macchina teatrale inventata da Antonio Galli Bibiena per il solitario combattimento di Orazio, è seguito l’altrettanto giocoso ed allusivo espediente di far rappresentare la fuga a cavallo di Clelia tra le onde del Tevere attraverso un cavallino giocattolo di legno, agitato da Larissa per mimare l’evento coraggioso di Clelia, l’eroina protagonista assoluta del dramma.

Peraltro, le modernissime macchine multimediali, a disposizione oggi dei registi al posto dei pesanti marchingegni meccanici settecenteschi dell’epoca del Bibiena, non hanno permesso al Lowery, ad esempio, né di proiettare in alto sul palcoscenico in modo leggibile i versi di Metastasio messi in bocca a cantanti presi più dalla necessità di rappresentare l’azione drammatica con un correre continuo da un capo all’altro della scena, piuttosto che contribuire con le loro voci alla comprensione dell’evolversi del plot narrativo, e neppure di avvicendare in scena immagini ed iconografie, storiche ed attuali, di Roma e dei luoghi delle memorabili imprese di Clelia e di Orazio Coclite.

Che dire poi dei tagli operati sul libretto di Metastasio e sull’intonazione di Gluck, “giustificati” peraltro anche da alcune topiche del grande studioso Alfred Einstein il quale assegnò «un amabile e riccamente accompagnato duetto fra Clelia e Orazio (Atto II, scena 2ª)», quando invece il duetto si trova sì nell’Atto II, ma alla scena 3ª, oppure situò la famosa “cantilena” di Larissa, a tempo di minuetto: «Ah, ritorna, età dell’oro» nell’Atto II, scena 2ª, mentre invece si trova nell’Atto III, scena 3ª?

Mannio e Clelia

Valgano per tutti i tagli operati in questa prima assoluta de Il trionfo di Clelia, a seguito del miracoloso ritrovamento nel 2007, a Bologna, di una copia integrale della partitura, l’incomprensibile eliminazione dal Coro finale di Romani del Tutti la partecipazione in voce dei tre protagonisti, Clelia, Orazio e Porsenna.

In conclusione, nonostante la musica di Ch. Willibald Gluck sia stata eseguita con fascinosa forza evocativa dall’orchestra diretta dal Maestro Giuseppe Sigismondi de Risio, mentre il 14 maggio del 1763 grande successo arrise al melodramma grazie al coinvolgimento emotivo garantito dall’architettura e soprattutto dai suggestivi, preziosi e funzionali mutamenti di scena costruiti da Antonio Galli Bibiena, anche in questa occasione, a 250 anni dall’inaugurazione del Teatro Pubblico/Comunale di Bologna, Il trionfo di Clelia ha visto il prevalere dell’interpretazione registica del Lowery sulla componente poetico-teatrale di Metastasio e su quella musicale di Gluck.

Forse, le fondamentali ragioni di questo scollegamento, o meglio, le motivazioni profonde di questa mancata coerente collaborazione tra interpretazione/esecuzione musicale, aderenza al testo/libretto in relazione alla sua origine storica e ai  destinatari dell’opera seria, e le scelte di regia e scenografia, possono essere individuate, in sintesi, in tre livelli critici.

Il primo risiede, a nostro avviso, nella difficoltà di cogliere tutte le valenze semantico-comunicative della lingua italiana di Pietro Metastasio che, in particolare in questo melodramma, ha la sua centralità nel valore/virtù della magnanimità, rivolta quale rinvio figurativo ad esaltare, ça va sans dire, l’agire politico di Maria Teresa d’Asburgo, nel periodo storico nel quale l’Impero è alle prese nella Guerra dei Sette anni con l’offensiva anglo-prussiana per il predominio in Europa e nel continente americano.

Il secondo livello di criticità è nell’illusione manipolatoria dei sensi e dei significati di un’opera seria del Settecento, come se questa debba necessariamente essere piegata da una intelligibilità fondata su criteri e modelli di comprensione dei nostri giorni, ad esempio, tirannide/libertà, astrattamente ritenuti forti e popolari, mentre si perde inesorabilmente la capacità di immedesimazione drammatico-teatrale-musicale fornita dalla figura di Clelia, della sua ben più attuale autonomia morale e politica.

Il terzo livello di criticità, infine, deriva  dal rifiuto di considerare e il testo poetico e quello musicale, insieme, come un organismo artistico definito e vivente, alla stregua del linguaggio delle arti visive.

In ultimo, ci corre l’obbligo di osservare che il prezioso lavoro svolto da Carlo Vitali nel libretto di sala de Il trionfo di Clelia per questa occasione del 250° anniversario dell’inaugurazione del Teatro Comunale di Bologna, attraverso la citazione con traduzione quasi integrale delle fonti storiche del dramma di Metastasio, avrebbe meritato migliore fortuna presso gli interpreti dello spettacolo messo in scena.

Certo, ci sarebbe anche piaciuto – ma forse è eccessivo chiederlo, soprattutto a cose fatte – che nello stesso libretto di sala fosse stato riprodotto il dipinto di Pompeo Batoni, l’unico ritratto dal vero di Pietro Metastasio, a tutt’oggi il più riuscito e artisticamente più significativo, se pensiamo ai veri e propri calchi, da questo derivati, del busto del Ceracchi nella Sala della Protomoteca in Campidoglio a Roma, e alla statua di Metastasio, opera di Emilio Gallori, collocata in Piazza della Chiesa Nuova a Roma.

Invece, purtroppo, nel libretto di sala appare un improbabile e molto discusso ritratto di uno sconosciuto cavaliere, opera di un certo Martin Van Mytes (sic!).

Roma, 22 maggio 2013                            Edda Conte – Mario Valente

Pompeo Batoni, Ritratto di Pietro Metastasio

Joseph Siffred Duplessis (1775), Christoph Willibald Gluck

Johann Adolph Hasse

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Martin van Meytens, Il Conte Giacomo Durazzo direttore degli spettacoli a Vienna con la moglie Ernestine Aloisia Ungnad von Weissenwolff

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Porsenna e Tarquinio

Larissa e Clelia

Clelia e Orazio

 

 

 

Metastasio - Farinelli - Chi siamo - Editoria - Orchestra - News - Comitato Nazionale - Links - Contatti - Stampa - Ch. Burney - Archivio News - Mappa

Copyright (C) 2004-2005 Mario Valente e Comitato per le Celebrazioni di Pietro Metastasio. Tutti i diritti riservati.