Il sogno di una notte di mezza estate
di Felix Mendelssohn Bartholdy
il 3 luglio del 2009 alle Terme di Caracalla

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

Sogno di una notte di mezza estate

di Felix Mendelssohn Bartholdy

il 3 luglio 2009 alle Terme di Caracalla

  

Il teatro dell’Opera di Roma ha avuto il merito e il coraggio di mettere in scena in questa stagione estiva 2009 alle Terme di Caracalla il balletto Sogno di una notte di mezza estate, in due atti, musica di Felix Mendelssohn Bartholdy, tratto dalla commedia di William Shakespeare.

Impresa non da poco questa messa in scena proposta in prima recita soltanto il 3 luglio, dopo l’annullamento delle due previste il 1° e il 2 luglio per sciagurati temporali estivi, che comunque consentivano, la sera della vera prima, al cielo di Roma di sfoderare drammatiche nuvole comunque non più minacciose, attraversate dai caldi colori rosati del tramonto, sulle fascinose e gloriose rovine di Roma antica. Non si poteva immaginare per il balletto e  la favola shakespeariana  una magia più bella di questa offerta dalla natura e da questo monumento storico, rendendo ancora più significativo l’omaggio in particolare a Felix Mendelssohn Bartholdy nella ricorrenza del 2° centenario della nascita (Amburgo, 1809-Lipsia, 1847).

Si è già fatto cenno al merito e al coraggio per questa rappresentazione del balletto al quale già in parte aveva messo mano Beppe Menegatti nel 2004 per uno spettacolo da lui ideato, “Shakespeare in Danza” dedicato al drammaturgo inglese, sempre con il Teatro dell’Opera di Roma.

Questa volta Beppe Menegatti ha firmato la regia dell’intera rappresentazione coreutica, la quale presentava il rischio di essersi trasformata e consolidata come tale soltanto a partire dai primi decenni del Novecento, dopo che nel 1843 Felix Mendelssohn Bartoldy a Potsdam aveva contribuito al successo del Sogno di una notte di mezza estate – così come richiestogli da Federico Guglielmo di Prussia – dotando la commedia shakespeariana oltre che dell’Ouverture già composta autonomamente molti anni prima, nel 1826, anche di parti musicali tratte da altre sue famose composizioni sinfonico-orchestrali, tutte comunque indirizzate ad arricchire la rappresentazione della commedia soltanto come musiche di scena.

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Affidare la narrabilità della commedia shakespeariana, originariamente strutturata nell’Ottocento con i suoi melologhi e parti canore, alla danza e al balletto, condotti sulle magnifiche musiche di Mendelssohn, pur essendo già stata sottoposta la commedia a tale innovazione con successo, ad esempio, dal Fokin e dal Balanchine, tra gli anni Venti e Sessanta del secolo appena trascorso, ha costituito quell’atto coraggioso e al tempo stesso meritorio, tenendo presente che rispetto agli illustri esempi sopra indicati questa volta la commedia, attraversata da ben tre intrecci, è stata pressoché integralmente e fedelmente rispettata.

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È stato altrettanto meritorio se non più coraggioso iniziare la stagione estiva 2009 a Caracalla non con il consueto repertorio lirico-sinfonico delle “Traviate”, “Aide” verdiane, delle “Tosche” e “Butterfly” pucciniane, delle “Carmen” di Bizet, ben conosciute e note al pubblico nostrano e internazionale – che comunque non ne resterà privato nel prosieguo della suddetta stagione – ma con questa rappresentazione coreutica, fastosa e fascinosa, con cui l’intera compagine artistica del Teatro dell’Opera di Roma ha potuto mettere alla prova anni di lavoro di tutte le sue componenti, a partire da Carla Fracci che ha profuso la sua passione e la sua grandissima esperienza artistica e culturale.

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Per realizzare la rappresentazione della commedia come rappresentazione coreutica integrale è stato necessario aggiungere da parte del direttore Jonathan Webb e della stessa Carla Fracci, assecondati dal coreografo Paul Chalmer e da Beppe Menegatti, altre musiche di Mendelssohn Bartholdy, la sinfonia “Italiana” quasi per intero trasferita nel balletto, e la sinfonia “Scozzese”, quest’ultima con l’intento non nascosto né peregrino di fornire più idonea e appropriata atmosfera alla magia suscitata dall’intreccio di tipo nordico esemplato nel ruolo assunto dalle figure degli elfi, dei re e delle regine delle Fate, nonostante qualche esito alquanto meccanicistico anche nell’allusiva scelta “italiana” della Sinfonia n. 4 in la maggiore  di Mendelssohn.

Non è dato sapere quanto ci si sia resi conto della coté barocca della commedia del drammaturgo di Stratford-on-Avon. Certo è che l’impegno del Teatro dell’Opera con la ricchezza degli apparati scenici (Cristian Biasci), dei costumi (Elena Mannini), delle luci (Mario De Amicis) è stato realmente rilevante, degno della migliore fama e tradizione del Teatro dell’Opera di Roma, e tutto rivolto ad accentuare quell’effetto della maraviglia, dell’intervento del deus ex machina, qui umanamente espressi dal mago Oberon e dal suo servitore, il folletto Puck (questi splendidamente interpretato da Massimo Garon), entrambi chiamati a produrre sortilegi e magie pur di sciogliere nel lieto fine la complessa misteriosa finzione scenica, ordita dalla straripante fantasia creativa di William Shakespeare nell’inseguire amori contrastati tra individui di nobile lignaggio, tra giovani appassionati a loro volta perseguitati da paterne (e senili) infauste volontà, e tutto sospeso tra improbabili trapianti dell’Atene classica, dei suoi miti e divinità, l’evocazione della già citata tradizione magico-agreste-boschiva dell’ancestrale mondo sassone e nordico, e la chiamata in causa, tipica del drammaturgo elisabettiano, dell’irridente e popolare trasgressione di poveri saltimbanchi nella veste di improvvisati teatranti della tragica favola di Piramo e Tisbe.

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Al Duca di Atene il compito di introdurre la commedia in forma di balletto e di invitare, per  allietare le nozze con Ippolita, sua promessa sposa, un gruppo di saltimbanchi a mettere in scena, dopo un’attenta scelta delle proposte avanzate, niente po’ po’ di meno che appunto la famosa favola di Piramo e Tisbe.

Le prove dei teatranti vengono fatte furtivamente nel bosco nel quale convergono le due coppie di amanti, Ermia e Lisandro, Demetrio ed Elena, interdetti dalla volontà contraria del vecchio Egeo, padre di Ermia, che vuole questa sposa a Demetrio. Nel bosco misterioso viene  favorito l’intervento del deus ex machina, cioè di Oberon, re delle Fate per ripristinare alla fine l’ordine naturale degli affetti e dell’amore tra i giovani amanti. Lo stesso Oberon partecipa alla commedia amorosa contendendo prima a Titania, regina delle Fate, i favori di un paggio prediletto, poi unendosi alla regina, dopo averne provato e piegato la volontà con un terribile incantesimo che vede questa innamorarsi di un povero teatrante trasformato in asino.

L’unità di luogo dei tre intrecci narrativi – il bosco dell’atavico e ancestrale mondo sassone degli elfi e delle fate – unendo alla mischianza del tempio greco per rappresentare le vicende del Duca di Atene, il controcanto finale della rappresentazione di Piramo e Tisbe da parte dei saltimbanchi è stata qui felicemente e appropriatamente collocata  en pleine aire tra i pini e nello spazio dilatato delle antiche rovine romane delle Terme di Caracalla, quasi e simile ad uno spazio arcadico, di quella Arcadia romana dei primi decenni del Settecento.

 

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Del resto non lontano dalle Terme fatte inizialmente erigere da Settimio Severo, e concluse dall’imperatore Caracalla nel 214 d.C., negli Horti Farnesiani sul Palatino, si svolgevano le prime rappresentazioni poetiche dell’Accademia dell’Arcadia.

Tra i numerosi messaggi simbolici immessi dalla scenografia e dai costumi nello spettacolo coreutico ci è perciò sembrato che l’ingresso di servitori-portatori di luci in abiti settecenteschi, i quali, peraltro, hanno anche chiuso il balletto, abbia voluto alludere a questo topos della tradizione letteraria ed artistico-musicale settecentesca che avrebbe avuto il merito nel corso del secolo XVIII, di soppiantare la gloriosa e maravigliosa tradizione del teatro barocco.

Ciò invece che non ha a nostro avviso convinto pienamente, dal punto di vista dell’allestimento scenico e dei costumi, è stato un eccesso di mescolanza di segni con l’ allusione all’Ottocento, evidenziato nei gibus dei Cavalieri, peraltro non esplicitato più di tanto in relazione – crediamo – a quel mondo della Germania di Federico Guglielmo IV che, con la richiesta delle musiche di scena al maggiore compositore tedesco dell’epoca, intendeva gettare le basi culturali, attraverso la commedia di William Shakespeare, del recupero dell’improbabile identità nazionale della Germania nel mondo pre-medievale dei miti e della religione runica.

 

Sarebbe stato utile e d’aiuto agli spettatori di questa prima del Sogno di una notte di mezza estate, sia una semplice ed efficace presentazione del plot originario di Shakespeare, nel quale il ruolo dei teatranti-saltimbanchi riveste un significato ancora più importante di quanto non sia emerso in questa esecuzione, sia marcare le differenze narrative immesse nella rappresentazione voluta da Federico Gugliemo IV, mentre, d’altro canto, l’impegno di grande livello profuso da tutto il corpo di ballo, in particolare dalla schiera corale delle fate e da una splendida Gaia Straccamore, nella parte di Titania, da un altrettanto affascinante  Vito Mazzeo, nel suo prepotente dominare la scena come Oberon, dalla misurata e sempre espressiva grazia di Carla Fracci, fosse stato adeguato e conseguente anche nella scelta di un Duca di Atene, meno compassato e a volte rigido nei panni peraltro sontuosi, indossati da Paolo Mongelli.

L’impegno, comunque, dell’intero allestimento del balletto, dalle luci alla scenografia montata sull’assetto stabile di un rustico ponte di legno di antica memoria shakespeariana, alla bellezza di pressoché tutti i costumi, estremamente curati, hanno reso questa rappresentazione coreutica uno spettacolo di rilevante livello, mentre alla difficile sperimentazione con l’immissione ex novo di parti cospicue delle musiche di Mendelssohn, prese dalla famosa Sinfonia “Italiana” e dalla “Scozzese”, non ha sempre corrisposto un’adeguata sincronia ritmica e di movimenti del corpo di ballo, a causa dell’intrinseca difficoltà di far corrispondere le connessioni tra le agogiche del musicista tedesco con i ritmi narrativi della commedia espressi e manifestati dalla danza.

 

Siamo comunque facili profeti nel pronosticare al corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma il conseguimento di un pieno e completo successo artistico ed espressivo, grazie alla giovanile passione dei suoi interpreti e alla grande e magistrale esperienza artistica di Carla Fracci.

  Roma, 5 luglio 2009                                                    Mario Valente

 

 

 

Il "Sogno di una notte di mezza estate" trascritto per piano a quattro mani dall'Autore

 

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