Vivaldi all'Accademia Filarmonica Romana

 

L’inaugurazione della stagione 2008-2009 dell’Accademia Filarmonica Romana
al Teatro Olimpico di Roma, 15 Ottobre 2008

 

Antonio Vivaldi, Serenata a tre RV 690 «Mio cor, povero cor »
Clemencic Consort
Direttore: Renè Clemencic

Eurilla (soprano), Laura Cherici

Nice (soprano), Theresa Dlouhy

Alcindo (tenore), Daniel Johannsen

Impianto scenico, Isabella Ducrot

Costumi, Veronica Della Porta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La rara esecuzione di questa Serenata a tre di Antonio Vivaldi, «Mio cor, povero cor», avvolta peraltro nel mistero, non ancora pienamente svelato, di essere collegata alla morte dello sfortunato Amable de Tourreil, noto seguace del giansenismo, arrestato nel 1711 a Firenze, tradotto nelle prigioni di Castel Sant’Angelo a Roma, dove languì fino a morire  per malattia nel 1719, ha attirato il 15 Ottobre al Teatro Olimpico in Roma una tale affluenza di pubblico come difficilmente si ottiene con le opere musicali del barocco.

 

René Clemencic

Certamente la sapiente regia organizzativa tessuta per il Concerto inaugurante la stagione 2008-2009 da Marcello Panni, direttore artistico dell’Accademia Filarmonica Romana, ha sfruttato opportunamente il richiamo sul pubblico romano del già conosciuto: l’aspettativa delle musiche di Antonio Vivaldi per questa Serenata a tre, la direzione di Renè Clemencic, figura storica tra le più famose ed apprezzate nel corso del Novecento come interprete della musica barocca, alla guida, dal clavicembalo, del Clemencic Consort; l’allestimento della grande scenografa napoletana Isabella Ducrot nel simulare la rappresentazione semi-scenica, mediante un fondale a tutto palcoscenico da essa stessa ex novo dipinto in chiave modernisant, come una sorta di patchwork allusivo, nei toni coloristici rosso fuoco, alle passioni evocate e/o controllate dalla temperie tonale propria delle atmosfere arcadiche, tipiche forme espressive dei primi anni Venti del Settecento, per ultimo i lucidi accesi costumi a sacco indossati dai cantanti, ideati da Veronica Della Porta, a fissare caratteri e sentimenti messi in scena dai personaggi con la poesia di ignoto musicata da Antonio Vivaldi, tutto ciò ha rappresentato un impegno artistico non indifferente né usuale.

Insomma, la scommessa di dare inizio alla stagione lirico-sinfonica 2008-2009 della gloriosa istituzione musicale romana con la Serenata a tre di Antonio Vivaldi confortata da una sala piena di pubblico in ogni ordine di posti, sembrava vinta, come si dice, a mani basse.

Daniel Johannsen

Se non fosse stato un eccessivo rallentamento dei tempi esecutivo-orchestrali tanto diluiti da Renè Clemencic da trasformare i classici e tipici accordi “in levare” di Vivaldi in altrettanti improbabili calando – in particolare nelle arie della prima parte del Concerto –  si potrebbe dire che anche la rara composizione del prete rosso avrebbe potuto a buon diritto aspirare ad entrare nel già ampio repertorio delle odierne esecuzioni delle sue musiche. Ma oltre al non trascurabile limite relativo ai tempi dettati dal direttore del Clemencic Consort, occorre considerare la conseguente perdita di ritmo e di coesione scenico-musicale tra le parti della Serenata, non surrogata, purtroppo, dalla pur encomiabile recitazione-declamazione a memoria del testo da parte dei cantanti, peraltro riuscita come prova di canto soprattutto con l’interpretazione di Laura Cherici, che, nella parte di Eurilla, la protagonista effettiva della Serenata, ha potuto dare colore e vigore drammatico al ruolo affidatole.

È venuta così emergendo la necessità che si sarebbe dovuto fare ricorso anche per questa esecuzione semi-scenica, in mancanza di un’unitaria ed unificante direzione orchestrale dell’integrale Serenata, ad un’attenta vera e propria regia teatrale capace di indirizzare l’attenzione degli interpreti a quelle interazioni drammatiche sulla scena a loro volta in grado di esaltare le invenzioni melodiche ed armoniche di Antonio Vivaldi. Ci si riferisce in particolare all’ambigua connotazione assunta dal senso della “libertà” nell’aria di Alcindo con cui il personaggio sembra volersi difendere dall’esondante e prepotente dichiarazione amorosa di Eurilla. La stessa conclusione di Eurilla in chiusura della Serenata evocante la terrificante punizione per chi si rifiuta al suo amore: «Olà, Ninfe, Pastori: nell’amorosa Caccia/ Colsi la Fiera, onde co’ schermi vostri/ Ad isbranarle il cuor pronti vi chiamo./ Contro un altero un gran rigore io bramo.», risulta in questa esecuzione semi-scenica praticamente incomprensibile, sia dal punto di vista teatrale sia da quello dell’intonazione vivaldiana. Così come è risultato straniante il Coro finale, rispetto all’interpretazione statica dell’insieme della Serenata a tre, prima di esso quasi una lettura lontana nel tempo delle sentimentali atmosfere arcadiche dalle quali l’esecuzione concertistica si è come lasciata avvolgere ed irretire. Nel Coro finale, infatti, tutti e tre i personaggi cantano versi non proprio rassicuranti, che anzi intendono spiazzare e scuotere gli spettatori in attesa di un esito a lieto fine:

 «Si punisca, si sbrani, s’uccida/ Il superbo spietato suo cuor./ Delle ninfe nel sen non s’annida/ Mai pietà con chi vanta rigor.»

 Se è vero come è vero, infatti, che, secondo la lettura storico-critica di Michael Talbot, la Serenata di Vivaldi intendeva invece celebrare, servendosi dello schermo di un’innocua favola pastoral-arcadica, una sorta di severo ammonimento, a futura memoria, nei riguardi di tutti i seguaci del giansenismo, rei di arrogarsi il diritto di riservare a se stessi la libertà di scegliere il proprio percorso nella ricerca della Fede cattolica, si può dire che la drammaticità di tale assunto teatrale-musicale con l’esecuzione del Clemencic si sia dispersa nella faticosa, lenta, meccanica e ripetitiva accumulazione di interminabili “da capo” musicali e nella giustapposizione dei recitativi alle arie.

In definitiva, il Clemencic Consort, il suo direttore, e, dobbiamo purtroppo osservare, lo stesso direttore artistico dell’Accademia Filarmonica Romana, non si sono chiesti come rendere comprensibile in scena la tesi storiografica, capace di individuare nella Serenata vivaldiana una vera e propria deriva post-controriformistica, che Michael Talbot, in modo esemplare, assunse come senso e  significato emblematici di questa composizione del prete rosso, maturata, forse, nel corso della sua esperienza alla corte di Mantova (1718-1720): l’unica vera libertà è nell’abbracciare usque ad mortem, appunto, l’insegnamento e la dottrina della Fede, impartite a Roma da Santa Madre Chiesa, sostenute con il consueto vigore e rigore dall’ordine gesuita, peraltro tenuto in gran conto quest’ultimo da Clemente XI, papa Albani, come antemurale di fronte ad ogni cedimento teologico-religioso.  La stretta interdipendenza tra la cultura letterario-musicale promossa dall’Accademia dell’Arcadia, da una parte, l’adesione di questa alla guida dottrinaria della Compagnia di Gesù, e la composizione musicale offerta al testo da parte di Antonio Vivaldi, mediante tutte le sue lussureggianti ambiguità tonali, dall’altra, ambiguità appena intraviste ed accennate sotto la direzione di Renè Clemencic, si sono come perse nel faticoso inseguirsi di invocazioni amorose, pastoral-arcadiche, agli occhi e alle orecchie del pubblico presente al Teatro Olimpico, riteniamo – per dirla con una nota icastica espressione proverbiale inglese  - del tutto non sensical.

Laura Cherici (a destra), Theresa Dlouhy (a sinistra)

Forse si è ancora una volta inteso dimostrare che la musica di Antonio Vivaldi è la musica di Antonio Vivaldi, come a dire che basta a se stessa e a tutti i suoi ammiratori, volendo ignorare, come spesso accade per una nozione e ricezione estetizzanti, a buon mercato, della cosiddetta musica antica, i precisi rinvii dei testi poetico-musicali richiesti dal committente dell’epoca all’autore  della composizione affinchè lettera e senso della stessa arrivassero ai destinatari prescelti. A margine e completamento delle notazioni storiografiche di Michael Talbot, possiamo aggiungere che Antonio Vivaldi, forse anche grazie all’intemerata anti-giansenista espressa nella Serenata a tre, subito dopo, dal 1722 al 1724, si guadagnava, dominandolo per un triennio, il palcoscenico del Teatro Capranica a Roma, invitato proprio dal cardinale Pietro Ottoboni, il protettore dell’Accademia dell’Arcadia,  dove il musicista avrebbe fatto mettere in scena con enorme successo, nel 1723 il dramma Ercole sul Termodonte, e nel carnevale del 1724 ben 2 opere serie: Giustino, libretto di Pietro Pariati, modificato da Nicolò Berengani, e l’emblematica La virtù trionfante dell’amore e dell’odio, overo il Tigrane, su libretto di Francesco Silvani.  

Così al prete rosso, dopo avere servito a Mantova Filippo di Assia-Darmstadt, governatore della città per conto degli Asburgo, arrivava l’incarico di rappresentare nei drammi per musica del periodo romano, la prospettiva di una riconciliazione tra  la cattolicissima Vienna e i papi Innocenzo XIII e Benedetto XIII, succeduti al filo-borbonico e filo-gesuita Clemente XI, ma non per questo meno intransigenti dell’Albani nei confronti dei seguaci del giansenismo.

Forse sarà chiedere troppo ai moderni interpreti ed organizzatori di esecuzioni delle musiche vivaldiane contestualizzare storicamente origine, committenza e occasioni delle intonazioni, soprattutto, dei testi poetici, ma conserviamo la speranza che un giorno non lontano si possano giovare tutti – esecutori, interpreti e pubblico soprattutto – della ricostruzione di ciò che Giuseppe Sinopoli definiva  l’ante-testo di ogni grande musica composta nel XVIII secolo. Il direttore d’orchestra si riferiva in particolare a W.A. Mozart, del quale egli si riprometteva di eseguire le opere non prima però di averne studiato e compreso tutte le condizioni storico-culturali che ne avevano consentito la composizione e la rappresentazione.

Riteniamo che tale metodo sia proficuamente da estendere ad ogni esecuzione ai nostri giorni del teatro musicale del XVIII secolo.

 

 

Roma, 16 Ottobre 2008                                                           Mario Valente

 

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